Il Passo
ULTIMA ORA
RIFLESSIONI ORNITOLOGICHE ESTIVE
(27/07/2023)
L’epoca estiva, nella quale certamente si lavora, ma per qualche settimana a ritmi meno forsennati e con discrete pause, favorisce le riflessioni. O meglio, ci consente di mettere nero su bianco le riflessioni che alimentiamo da tempo. Una di esse, potrebbe essere sintetizzata in una frase del tipo “dov'è finito lo svernamento”? Ci riferiamo ovviamente allo svernamento degli uccelli e, specificamente, dei migratori. Tutti abbiamo sempre saputo e studiato e osservato e letto, che il ciclo vitale annuale delle specie di avifauna migratrice è suddiviso nelle seguenti fasi: migrazione pre-nuziale, riproduzione, migrazione post-nuziale e svernamento. L’obiettivo, in relazione allo svolgimento dell’attività venatoria, è sempre stato quello di evitare il più possibile concomitanze e sovrapposizioni, ad esempio, con l’epoca riproduttiva, anche perché, pure ante direttiva Uccelli e norme comunitarie – cioè ben prima che venisse fondata la CEE e, molto dopo, l’UE – era interesse degli stessi praticanti la caccia, che la selvaggina venisse lasciata tranquilla a riprodursi, anche solo per mero interesse, ovvero affinché si potesse beneficiare di un patrimonio faunistico più importante. C’era invece, è indubbio, assai minore attenzione per l’arco di tempo precedente la riproduzione, quello cioè della migrazione primaverile, che i cacciatori in gergo definiscono “ripasso”. Non per niente, numerose specie migratrici acquatiche, si cacciavano fino alla metà, se non alla fine, di aprile. Col trascorrere dei decenni, il sopraggiungere e perfezionarsi della normativa comunitaria e unionale per la tutela della biodiversità in generale, ha stretto sempre più il laccio attorno a molte attività, compresa quella venatoria, limitandone innanzitutto i periodi di lecito svolgimento. Siccome però le norme comunitarie-unionali dettano principi e criteri, non potendo contenere date esatte uguali per tutti gli Stati membri, ne sono scaturiti ampi contenziosi per una loro corretta interpretazione, con ragguardevole produzione giurisprudenziale della Corte di giustizia europea che si è depositata già a partire da fine anni ’80 dello scorso secolo. Va da sé che il diritto produca a volte dei veri “mostri giuridici” che non hanno alcun riscontro nella realtà quotidiana, in quanto affermazioni di principi giuridici astratti: purtroppo però tali mostri, una volta sulla carta, creano difficoltà insormontabili, che richiedono sforzi sovrumani in sede tecnica per cercare di rendere compatibili con essi le attività nella natura, caccia in primis. È da un caso del genere, con l’invenzione dell’insensato principio della “protezione completa”, che nel 1994 la Corte di giustizia inguaiò tutto il resto del mondo su avvio e chiusura della stagione venatoria nei Paesi UE. Ne scaturirono dibattiti, polemiche, scontri tra categorie di stakeholders sulle opposte barricate, finché non si giunse alla redazione, lunga e laboriosa, della notissima Guida interpretativa sull’applicazione della Direttiva 79/409/CEE (oggi 2009/147/CE), formalmente adottata dalla Commissione UE. È un documento di assoluta rilevanza tecnico-giuridica, che letteralmente guida i singoli Paesi nella definizione dei periodi di attività venatoria in armonia con le esigenze dell’avifauna: in parole povere, rendendo la caccia compatibile con la conservazione della risorsa faunistica o, come va di moda dire oggi, “sostenibile”. Di pari passo, vanno considerati i lavori del gruppo tecnico che oggi si chiama NADEG (Gruppo di esperti sugli uccelli e sulle direttive Natura) e che ha assorbito le funzioni di quello che in precedenza era il Comitato Ornis. Il NADEG è costituito da esperti in rappresentanza dei singoli Stati UE che, tra i suoi compiti, ha anche il periodico esame di dati per l’eventuale aggiornamento delle famose decadi di riproduzione e di migrazione pre-nuziale delle specie di avifauna oggetto di caccia nell’Unione, illustrate e argomentate nell’altrettanto celeberrimo documento “Key Concepts of Article…” ecc. ecc. che tutti, per le vie brevi, denominiamo KC. E qui torniamo alla nostra domanda originaria: dov'è finito lo svernamento? Semplice… è (quasi) scomparso. Soprattutto per alcuni Paesi (tra cui, guarda caso, l’Italia) e soprattutto per specie di elevato interesse venatorio (guarda ancora caso). Qualche esempio? Germano reale, Alzavola, Beccaccia, Tordo bottaccio, Tordo sassello, Cesena …. Il periodo riproduttivo termina magari a fine luglio o fine agosto, tra settembre e novembre (anche oltre) c’è la migrazione autunnale e alla prima/seconda decade di gennaio comincerebbe il ripasso. Pertanto, quando o quanto svernano queste specie? Venti giorni a cavallo fra dicembre e gennaio? Da qui, alla sparizione completa di tale periodo cruciale, il passo è brevissimo. Viene allora da domandarci se, scientificamente, tutto ciò sia corretto, nonché serio. Non è questione di voler cacciare di più, da una parte e, dall’altra, di voler fare cacciare di meno. Il quesito che ci poniamo è di deontologia professionale: ci si rende conto che siamo ormai alla negazione dello svernamento quale fase biologica essenziale del ciclo vitale dei migratori? Gli uccelli passerebbero dalla migrazione post-nuziale direttamente a quella pre-nuziale, dopo sì e no una ventina di giorni di frettoloso relax per superare l’inverno. È pur vero che, per il senso comune, “non ci sono più gli inverni di una volta”, ma la scienza ornitologica è tutt’altra cosa e non si alimenta di chiacchiere da bar o da mercato. Sappiamo già che ci risponderebbero che la “colpa” è della sentenza della Corte che abbiamo citato, per la quale protezione completa significa proteggere anche i primi due soggetti in movimento pre-nuziale: poi, non conta che la migrazione massiva della stragrande quantità di uccelli, cominci magari a febbraio o anche più tardi. Il diktat dei legulei di Bruxelles va rispettato. E questi sono i motivi per cui la stagione venatoria va riducendosi progressivamente (nonostante le date di legge siano inalterate dal 1992): per proteggere i due esemplari precoci (ammesso che siano già in ripasso), si chiude tutto in pieno inverno. Perché l’inverno a nostro parere continua a esistere, eccome. Resta solo la legittima domanda: si può, in nome di un principio giuridico inventato, cambiare la biologia delle specie selvatiche? Piegare la scienza alle aule di tribunale? Noi di dubbi ne abbiamo tanti, altri evidentemente non ne hanno. La scienza ornitologica meriterebbe molto più rispetto e molta maggior onestà intellettuale, anche e soprattutto da chi ne ha fatto il proprio mestiere. (Palumbus)
UNA RISALITA “DILUITA”
(27/03/2023)
Iniziamo il report sulla migrazione primaverile ricordando un “inverno non inverno” col protrarsi del fenomeno siccitoso per un lungo periodo, quasi ininterrotto sino alla fine di marzo, causando un deficit di precipitazioni, rispetto all’ultimo decennio, di 150 millimetri aggiunto poi ai circa 600 mm di deficit accumulato lo scorso anno. Il fatto la dice lunga perché da anni non si registrava un tale avvenimento. Di seguito, nel mese di aprile, il mutamento di scenario delle condizioni meteo, sebbene fortemente desiderato, è accaduto in peggio, tanto da far rallentare la migrazione dei nostri amici alati verso i lidi di nidificazione con temperature sotto la media del periodo e nevicate tardive a quote elevate. Maggio non è stato da meno a causa di un maltempo degno di nota soprattutto al centro-nord della penisola con forti o addirittura fortissime precipitazioni che hanno causato frane ed esondazioni dei corsi d’acqua, originando vere alluvioni, come avvenuto in Emilia Romagna. In questo contesto meteorologico, dalla siccità estrema alle piogge distruttive, la migrazione ha avuto un andamento diluito e la nidificazione è stata messa in difficoltà, augurandoci che non sia stata danneggiata dalla meteorologia che fa registrare ancora in giugno abbondanti precipitazioni. Per quanto, infine, attiene ad alcune specie i cui spostamenti devono considerarsi più positivi di quelli di altre (sempre nella normale annuale alternanza delle stesse nel loro eterno viaggio da nord a sud e viceversa), vi è da ricordare l’interessante risalita, nel periodo analizzato, dei limicoli come i vari Piro piro e Piovanelli, delle anatre come la Marzaiola, l’Alzavola e il Mestolone, del Tordo, della Cutrettola, dello Stiaccino, del Culbianco e, in tono minore, del Prispolone, della Balia nera e di altri piccoli migratori transahariani. È stato veramente un periodo molto strano e così, se da un lato le fioriture hanno leggermente anticipato la stagione di alcuni giorni (soprattutto per quanto riguarda gli alberi da frutto), dall’altro le tanto desiderate precipitazioni avvenute sin da aprile e successive settimane sono cadute con violenza su gran parte della penisola facendo recuperare agli invasi un buon quantitativo di acqua che, sebbene non ancora ai normali livelli, sarà comunque molto utile per affrontare le prossime stagioni estiva e autunnale in arrivo. (Walter Sassi)
ANCORA UN INVERNO SOTTOTONO:
SASSELLI ASSENTI, PIANURA SNOBBATA DALLE CESENE
(27/03/2023)
Dopo il periodo della migrazione, le specie migratrici a corto raggio tendono a soffermarsi nei territori per passare la brutta stagione in cerca di riparo e nutrimento. Così avviene da sempre anche nel nostro paese, dove siamo abituati ad osservarle in modo più o meno consistente. Dicembre e gennaio sono considerati a livello ornitologico il periodo di svernamento e dopo un 2022 che si è confermato il più caldo mai registrato in Italia con anomalie più evidenti nel nord-ovest, l’ultimo mese dell’anno non è stato da meno e i dati raccolti hanno evidenziato le varie anomalie riscontrate soprattutto al sud che, secondo gli esperti, sono preoccupanti. Infatti al nord alcune precipitazioni nevose, la copertura nuvolosa, l’aria fredda proveniente dal nord Europa a inizio mese hanno mantenuto comunque le temperature più basse, mentre al sud il sole è stato il vero protagonista. Così il mese di dicembre 2022 si classifica tra i più caldi di sempre sul territorio italiano. Con la speranza di rientrare nella normalità, gennaio 2023 si apre con un tempo mite e piovoso, poi più freddo nell’ultima parte del mese. Dal punto di vista delle precipitazioni, è stato un mese piuttosto piovoso soprattutto dalla seconda decade in particolare al sud, sui settori adriatici e in Sardegna, mentre al nord-ovest, in particolare in Piemonte, sull’arco alpino e sul settore ionico della Sicilia, si è imposto un deficit pluviometrico. In tema ornitologico, se la precedente stagione invernale 21-22 è stata carente del numero di individui per ogni specie che svernano sulla nostra penisola, quella appena conclusa per molte ha dimostrato un peggioramento della situazione. Nei grandi turdidi la Cesena, che si era notata all’inizio della migrazione autunnale in buon numero, si è fermata nei territori compresi tra l’alta collina e la montagna, snobbando così la pianura molto probabilmente per via delle temperature miti e della buona presenza di pastura che non ha invogliato la specie a grossi spostamenti verso zone più basse. Ciò ha giovato agli osservatori posti sui rilievi, che hanno goduto di alcune giornate con la presenza di piccoli contingenti, senza però numeri eclatanti. Contrariamente alla Cesena, il Tordo sassello unitamente al Frosone, come lo scorso anno, hanno replicato la loro scarsa presenza, cui però quest’anno si è aggiunta in modo evidente l’assenza della Peppola. Se i due fringillidi non sono stati visti in gran parte del paese il sassello ha fatto comparsa con piccoli gruppetti solo in sporadiche zone. Le uniche specie protagoniste sono state Colombaccio, Lucherino e Fringuello che si sono notate in modo uniforme e ottimale sul territorio. E che dire della regina dei boschi? Secondo le testimonianze, dopo un buon passo tra ottobre e novembre e qualche osservazione nella prima decade di dicembre, sembra che la carenza di precipitazioni in particolare al nord e un inverno mite non abbiano più favorito buoni incontri. Tra i passeriformi, va ricordato che sia le varie Cince, che Pettirosso e Passera scopaiola hanno mantenuto una buona presenza nei parchi e negli ambienti boschivi, mentre in campagna Pispola e Allodola con il Fanello sono comparsi in numero discreto. Molto localizzata la presenza di Storno, Merlo e Tordela. Per il secondo anno consecutivo gli Spioncelli non hanno entusiasmato. Inutile sottolineare l’onnipresenza dei corvidi in ogni ambiente. Tra gli acquatici, buona come sempre la presenza del Germano reale, della Gallinella d’acqua e degli ardeidi in generale, così come per l’Alzavola e, in modo più discreto, del Beccaccino. Purtroppo secondo analisi effettuate e studi in atto dagli esperti per ora va sottolineato come in un contesto meteorologico tendente all’innalzamento delle temperature medie non ci si possa aspettare altro che i migratori a corto raggio rimangano nei siti di nidificazione o svernino in territori molto adiacenti, arrivando così a trascurare i territori posti a latitudini più basse dove, da sempre, siamo abituati a osservarli. Solo il corso del tempo e l’evolversi delle stagioni daranno la risposta a questi mutamenti naturali ricchi di incognite. (Walter Sassi)
L’ALLODOLA, ULTIMA PROTAGONSTA DELLA CACCIA AL PRATO
(27/03/2023)
L’Allodola (Alauda arvensis), è un passeriforme migratore della Famiglia Alaudidi che visita copiosamente l’Italia nel corso della migrazione post-nuziale provenendo dai vastissimi quartieri riproduttivi posti nell’Est del continente. In verità, questo uccello non limita la sua presenza sui nostri territori al solo autunno-inverno, ma abbastanza comunemente si rinviene anche come nidificante, benché non ovunque e non con elevate concentrazioni di coppie. Anzi, purtroppo i dati raccolti su campo attestano una sua continua diminuzione a causa delle lavorazioni intensive delle campagne: un problema comune alla gran maggioranza delle specie nidificanti sui suoli agricoli, che rappresentano i loro habitat preferiti ma, al contempo, anche la loro condanna. Specie terricola, l’Allodola è infatti strettamente legata ai terreni coltivati di pianura e di bassa e media collina, prediligendo le colture erbacee e cerealicole. In autunno e inverno, le allodole si possono trovare nelle stoppie di mais, di riso se asciutte, nei terreni arati, nei coltivi di cereali autunno-vernini come frumento e orzo ove le piantine sono in emergenza, nei prati stabili, nei pascoli, nelle steppe e nelle lande: tutti o quasi, come si vede, ambienti creati e modellati dall’agricoltura. Questo, da indubbio punto di forza della specie, vista la diffusione dei terreni agricoli in Europa, con il passare dei decenni si è tramutato in un elemento di grande debolezza, poiché la rapida evoluzione delle tecniche agronomiche, la meccanizzazione sempre più esasperata e il diffuso impiego di sostanze di sintesi, impattano negativamente sulle popolazioni, in particolare nella stagione della riproduzione. Un destino analogo, come dicevamo, a quello di tutte le altre specie di avifauna che vivono nelle campagne coltivate e che presentano un regime alimentare prettamente insettivoro. L’equazione è elementare: calando le popolazioni di insetti, calano proporzionalmente anche quelle delle specie di avifauna che se ne alimentano. A ciò, si aggiungano le perdite di nidi provocate dai macchinari agricoli durante gli sfalci dell’erba o la trebbiatura dei raccolti. L’Allodola depone mediamente da tre a cinque uova di piccole dimensioni, di norma per due covate l’anno. I pulcini sono nidifughi, cioè acquistano rapidamente la capacità di abbandonare il nido, poiché il fatto di trovarsi al suolo li obbliga ad acquisire una precoce indipendenza, facendo poi del mimetismo, al pari degli adulti, la loro arma difensiva per eccellenza. Avvicinandosi le giornate di settembre, le allodole divengono irrequiete per l’istinto della migrazione post-nuziale, per poi, tra fine mese e ottobre, mettersi in viaggio prevalentemente in piccoli branchi, che lungo il volo sostano nei territori idonei distribuendosi un po’ dappertutto. Con l’avvicinarsi dell’inverno, i soggetti dispersi qua e là a gruppetti tendono a concentrarsi maggiormente nei siti più favorevoli per meglio superare i mesi rigidi e allora può capitare di imbattersi in branchi molto numerosi. Una tipica caratteristica di questo grazioso volatile, osservabile nelle giornate soleggiate di ottobre e novembre, è quella di librarsi in alto in modo da sembrare quasi immobile, come appeso a un filo, da dove emette un gorgheggio melodioso e continuo, un limpido trillare che si ode da distanze notevoli. È il medesimo atteggiamento che l’Allodola di passo assume sulla civetta da richiamo – una volta viva o impagliata, oggi meccanica – allorché, come si dice in gergo venatorio, fa “lo Spirito Santo” rimanendo sospesa ad ali aperte sopra l’oggetto della sua curiosità. Stessa reazione ha l’Allodola nei confronti dei famosi specchietti lucenti e girevoli, per i quali prova grande attrazione (non a caso esiste il notissimo detto popolare degli “specchietti per le allodole”). Questi trucchi per fare avvicinare le allodole a tiro di fucile, fanno comprendere come la caccia a questa specie sia sempre stata di notevole rilevanza e praticata da molti appassionati, da nord a sud dell’Italia, ma anche in altri paesi mediterranei. È sempre stata effettivamente una delle specie legate alla cosiddetta “caccia al prato”, cioè tipica delle distese aperte e prive di alberature e filari. Le norme attualmente vigenti, hanno molto ridotto o vietato l’uso di strumenti attrattivi (ad esempio, la civetta può essere esclusivamente meccanica, nei modelli in commercio con ali che ruotano attorno al proprio asse), tuttavia il complemento ancor oggi necessario e consentito per ogni cacciatore di allodole che si rispetti è una buona batteria di richiami vivi, che adempiono alla fondamentale funzione, attraverso il proprio canto, di convogliare verso il capanno (l’appostamento può essere fisso oppure temporaneo) gli uccelli in transito durante la migrazione. Naturalmente, con il trascorrere della stagione, le allodole ormai fermatesi per lo svernamento, esperte del territorio e delle sue insidie, credono molto meno agli allettamenti predisposti dall’uomo. Un altro strumento sicuramente utile, a patto di saperlo bene adoperare, è il richiamo a bocca in ottone, che funge da complemento o da sostituto dei richiami vivi, benché questi ultimi siano di per sé insuperabili. Vi sono cacciatori specializzati sulle allodole che sono autentici virtuosi nell’impiego di tale richiamo, esibendosi in entusiasmanti “dialoghi” con i volteggianti uccelli e riuscendo a condurli fino alla portata utile dal capanno. Certo, come accennavamo, le allodole vive da richiamo, posizionate nelle loro gabbie, sono ovviamente imbattibili. Vi è poi un altro metodo di caccia a questa specie, senza dubbio accessibile a chiunque poiché non richiede strumenti o attrezzature particolari bensì ottime gambe, che è quello della caccia alla borrita o al salto. Pratica venatoria vagante, la borrita consiste semplicemente nel percorrere con la dovuta accortezza e attenzione i terreni dove si presume sostino le allodole, reagendo con fulminee stoccate al momento del loro involo. I risultati possono essere interessanti soprattutto durante la migrazione, in quanto gli uccelli si lasciano maggiormente avvicinare, dando modo di sparare bene a tiro, per farsi man mano più avari con il procedere della stagione verso l’inverno, allorché le distanze di fuga diventano proibitive. Che si scelga l’appostamento, oppure la borrita, oggigiorno occorre rispettare le ulteriori restrizioni imposte dal Piano di gestione nazionale della specie vigente dal 2018, riportate nei calendari venatori regionali, riferite ad esempio alla durata della stagione venatoria (con inizio dall’1 ottobre e non più dalla terza domenica di settembre) o al limite massimo di carniere pro-capite, giornaliero di dieci e stagionale di cinquanta capi, ovunque sia conseguito sul territorio nazionale. Esisterebbe la possibilità di differenziare, innalzandoli, i limiti di carniere per i cacciatori definiti “specialisti”, ovvero che si dedichino esclusivamente a questa specie con richiami vivi, ma pare sussistano difficoltà di raccolta esaustiva dei dati che servirebbero alle Regioni per autorizzare tali limiti di carniere più elevati solo per questi cacciatori. Senza contare che gli interventi di miglioramento ambientale, ossia le misure gestionali prioritarie per l’Allodola come per qualunque altra specie selvatica (senza dubbio più importanti delle limitazioni alla caccia), molto difficilmente trovano applicazione per indifferenza, disinteresse o semplicemente per scarsità delle risorse economiche attivabili a tale scopo. Peccato però che siano una delle condizioni alle quali soltanto la caccia possa proseguire. È pertanto elevato il rischio che la gloriosa caccia a questa specie, carica di storia e di costume, a breve la si ritroverà solo nei libri e nei manuali venatori: l’avranno tutti ben compreso? (Palumbus)
UCCELLANDE DI UN TEMPO
(27/03/2023)
É solito, frequentando gli ambienti fieristici e ornitologici venatori, di incontrare gente attempata appartenente a diversi ceti sociali ma accomunata dalla stessa passione e fra questi di poter colloquiare delle loro vicissitudini legate a un mondo che non è più parte dei nostri tempi moderni. Si entra così in un universo ricco di storia passata composta da tradizioni e usanze che erano parte integrante della vita appassionata di coloro che tra i monti e le campagne, a modo loro ma con grande devozione e rispetto, studiavano il fenomeno naturale della migrazione appartenente alla vita degli esseri alati nostri amici da sempre. Ecco quindi che si scopre quanti personaggi hanno frequentato e/o condotto quei manufatti dalle caratteristiche naturalistiche che erano le uccellande rappresentate dai roccoli, le bresciane, i paretai e tutte quelle forme di aucupio permesse che erano presenti anni fa in modo più o meno numeroso sul territorio italiano. Molte di loro sono ancora esistenti e conservate, altre abbandonate, mentre molte altre vivono solo nei ricordi dei nostri anziani e di coloro che hanno avuto la fortuna di farsi tramandare aneddoti o storie della loro esistenza. Da queste strutture sono passate da persone comuni a grandi ornitologi, che hanno studiato il mondo naturale degli uccelli scoprendone le meraviglie e cercando di dare una risposta alle molteplici domande che sorgono ogni volta che ci si imbatte nel fenomeno della migrazione. Ho avuto la fortuna di incontrare molte persone che un tempo uccellavano in un’epoca dove questa pratica era permessa e alcune di loro, da me sollecitate, mi hanno raccontato. Ne sono l’esempio i proprietari delle uccellande site nel territorio brianzolo alle porte di Monza qui sotto raccontate in maniera succinta, ma interessante. Alcune curiosità stuzzicheranno il lettore e, chissà, lo invoglieranno a raccontare della storia di una vecchia uccellanda magari non più esistente ma sempre nuova per tutti coloro che hanno sete di sapere e di conseguenza di immergersi per un attimo nel mondo ornitologico dei nostri vecchi saggi.
UCCELLANDA USUELLI
L’uccellanda Usuelli, dal nome del suo proprietario, era ubicata nel comune di Missaglia (MB) in località Contra. Composta da un casello a tre piani, una villetta per il soggiorno degli uccellatori, un roccolo (mt 200), un roccolino (200 mt) per fringuelli, una bresciana (300 mt) e una passata (300 mt). Il totale delle reti aperte (tramaglio) si aggirava sui 1000 mt. Tra le strutture in muratura esisteva un corridoio composto da carpino bianco che celava le persone che dalla villetta si recavano alla struttura di cattura. Mentre un secondo corridoio composto sempre di carpino bianco partiva dalla villetta sino all’entrata del territorio dell’uccellanda. Per la cattura degli uccelli veniva utilizzata una batteria composta da circa 200 richiami appartenenti alle specie Fringuello (45), Tordo bottaccio (30), Prispolone (20), Cesena (20), Tordo sassello, Passera mattugia, Cardellino, Verdone, Peppola, Lucherino, Zigolo giallo, Ortolano e Storno. Alla preparazione della struttura partecipava Pizzagalli Giuseppe detto Pin che svolgeva questo lavoro in tutte le uccellande del territorio brianzolo. La sua professionalità ha insegnato a molti altri ad allestire gli impianti di cattura che avveniva prima che ci fosse il solleone, perché la pianta, una volta potata, potesse germogliare di nuovo prima dell’autunno avendo in questo modo un aspetto più invitante per gli uccelli che venivano attirati. All’interno dell’uccellanda venivano utilizzate anche le Civette, che servivano soprattutto per la cattura del Tordo. Le civette venivano posizionate sul terreno e imbragate con un filo. A ogni sollecito da parte dell’uccellatore le civette compievano un voletto e si posavano sopra un posatoio posizionato davanti alla gabbia dei Tordi che, alla loro vista, iniziavano a criccare ossia a emettere versi d’allarme che attiravano altri tordi in modo potessero essere catturati nelle reti disposte nei paraggi. La scelta dei Tordi che dovevano emettere tali schiamazzi era oculata e avveniva con soggetti appena catturati. Il Tordo che non emetteva bene il verso caratteristico, veniva subito sostituito. La cattura della Civetta avveniva in questo modo. La tecnica raccontata da Aldo Pizzagalli era adottata dal padre Giuseppe detto Pin. Una volta individuato il sito dove la Civetta viveva, venivano piantati dei paletti di legno dove, sulla cima degli stessi, venivano posizionate e legate con una piccola cordicella, delle tagliole imbottite con stracci. Quest’ultimi servivano per non arrecare danno agli arti del piccolo rapace. Quando la Civetta si posava faceva scattare la tagliola e rimaneva intrappolata. La Civetta recuperata veniva prima imbragata con laccetti di cuoio e poi ammaestrata alla “riverenza”, comportamento tenuto in natura dal rapace in determinate occasioni durante il periodo del corteggiamento. Lo scopo era quello che, a comando dell’uccellatore perché sollecitata, la Civetta continuasse a farlo in modo da spaventare i Tordi posizionati nelle gabbie.
UCCELLANDA GALIMBERTI
Sita nel comune di Seregno in località Sirone, è stata attiva dalla fine del 1950 al mese di luglio 1976 dopo che un’ordinanza regionale ne fece chiudere i battenti perché l’impianto rientrava nel territorio a rischio Diossina dopo l’esplosione del reattore della ditta ICMESA di Seveso. Si componeva di una bresciana con rete tramaglio lunga circa 75 mt per 2.80 mt di altezza e un capannino di legno. Era piantumata a Platano e Carpino (quest’ultima specie arborea fu importata dall’Osservatorio di Arosio e dall’uccellanda di Brambilla di Giussano). La preparazione della struttura avveniva dal mese di maggio sino agli ultimi giorni che anticipavano l’apertura della stagione delle catture. I conduttori erano i proprietari Francesco Galimberti classe 1937 e il cugino Dino Teresio Galimberti, classe 1939. L’attività di cattura si svolgeva solamente in tarda estate/autunno dalla prima decade del mese di agosto alla fine di dicembre. Gli uccelli catturati venivano venduti ai negozianti di uccelli. Le specie non richieste venivano sempre rilasciate. Non venivano utilizzati zimbelli e non si usava la Civetta per uccellare. Infatti la stessa, se catturata, veniva ceduta ai cacciatori di Allodole che la utilizzavano come zimbello da richiamo. Venivano catturati mediamente dai 10 ai 30 uccelli al giorno. Le specie catturate erano Civetta, Barbagianni, Gufo, Merlo, Tordo bottaccio, Tordo sassello, Cesena, Storno, Rigogolo, Torcicollo, Picchio rosso maggiore, Picchio verde, Fringuello, Peppola, Fanello, Cardellino, Verdone, Frosone, Verzellino, Lucherino, Ciuffolotto, Zigolo giallo, Zigolo muciatto, Zigolo nero, Usignolo, Tottavilla, Pispola, Prispolone, Ortolano, Cuculo, Passera scopaiola, Balia nera, Beccafico, Capinera, Pettirosso, Cinciallegra, Cinciarella, Cincia bigia, Cincia mora, Codibugnolo, Scricciolo, Passera d’Italia e Passera mattugia. Il proprietario Francesco Galimberti ricorda che il primo anno uccellò con reti prestate dall’amico Ferruccio Frigerio di Seregno. L’anno successivo le reti furono comprate nuove. Ogni anno il permesso veniva rilasciato dalla Regione dopo una riunione organizzativa con gli uccellatori Turati di Robbiano, Frigerio di Seregno, Brambilla di Giussano, Invernizzi coordinata dall’Avvocato G. Bana dell’Osservatorio Ornitologico di Arosio. La preparazione dei richiami era impegnativa, ma appassionante e il proprietario ricorda di un richiamo particolare, un Prispolone con piumaggio albino e con occhi rossi acquistato a Pordenone da un allevatore. A tal proposito, è bene ricordare con qualche dettaglio in più alcuni dati che riguardano le specie più interessanti catturate nella struttura:
CESENA: solitamente durante il passo se ne catturavano diversi esemplari ma si ricorda una presa massima di 26 esemplari avvenuta durante una giornata ventosa e assolata di cui però non è stata purtroppo segnata la data.
ORTOLANO: venivano catturati solitamente una ventina di soggetti all’anno ma si ricorda una presa massima di cinque individui di cui due maschi e tre femmine avvenuta una domenica mattina verso la fine del mese di agosto.
TOTTAVILLA: in dialetto Turlu veniva catturata con una media di 10-12 individui all’anno. Tale dato sottolinea come questo piccolo passeriforme una volta era molto più presente rispetto ai giorni nostri sul territorio brianzolo.
CIUFFOLOTTO: in tutta l’attività dell’uccellanda ne furono catturati solo due.
PICCHI in generale, Usignolo, Pettirosso: non erano comuni ed erano pochi gli individui catturati ogni anno.
BARBAGIANNI: nella storia dell’uccellanda ne è stato preso solo uno.
CESENA FOSCA: rara e interessante cattura avvenuta nell’inverno 1973/74, imbrancata con delle Cesene. L’esemplare fu poi scambiato con un valido Prispolone utilizzato come richiamo di proprietà di un appassionato abitante a San Fior di Treviso.
PISPOLA GOLAROSSA: unica cattura avvenuta in un settembre degli anni ’70 durante una buona giornata di catture di Prispoloni. Sistemata in una gabbietta e appastellata, pensando fosse una Pispola, il proprietario la tenne sino alla primavera successiva quando, scoperta la specie grazie alla comparsa del rosso sul petto, fu ceduta in cambio di un bravo Prispolone cantore di proprietà di un appassionato di San Fior di Treviso.
Walter Sassi
UCCELLANDA USUELLI
L’uccellanda Usuelli, dal nome del suo proprietario, era ubicata nel comune di Missaglia (MB) in località Contra. Composta da un casello a tre piani, una villetta per il soggiorno degli uccellatori, un roccolo (mt 200), un roccolino (200 mt) per fringuelli, una bresciana (300 mt) e una passata (300 mt). Il totale delle reti aperte (tramaglio) si aggirava sui 1000 mt. Tra le strutture in muratura esisteva un corridoio composto da carpino bianco che celava le persone che dalla villetta si recavano alla struttura di cattura. Mentre un secondo corridoio composto sempre di carpino bianco partiva dalla villetta sino all’entrata del territorio dell’uccellanda. Per la cattura degli uccelli veniva utilizzata una batteria composta da circa 200 richiami appartenenti alle specie Fringuello (45), Tordo bottaccio (30), Prispolone (20), Cesena (20), Tordo sassello, Passera mattugia, Cardellino, Verdone, Peppola, Lucherino, Zigolo giallo, Ortolano e Storno. Alla preparazione della struttura partecipava Pizzagalli Giuseppe detto Pin che svolgeva questo lavoro in tutte le uccellande del territorio brianzolo. La sua professionalità ha insegnato a molti altri ad allestire gli impianti di cattura che avveniva prima che ci fosse il solleone, perché la pianta, una volta potata, potesse germogliare di nuovo prima dell’autunno avendo in questo modo un aspetto più invitante per gli uccelli che venivano attirati. All’interno dell’uccellanda venivano utilizzate anche le Civette, che servivano soprattutto per la cattura del Tordo. Le civette venivano posizionate sul terreno e imbragate con un filo. A ogni sollecito da parte dell’uccellatore le civette compievano un voletto e si posavano sopra un posatoio posizionato davanti alla gabbia dei Tordi che, alla loro vista, iniziavano a criccare ossia a emettere versi d’allarme che attiravano altri tordi in modo potessero essere catturati nelle reti disposte nei paraggi. La scelta dei Tordi che dovevano emettere tali schiamazzi era oculata e avveniva con soggetti appena catturati. Il Tordo che non emetteva bene il verso caratteristico, veniva subito sostituito. La cattura della Civetta avveniva in questo modo. La tecnica raccontata da Aldo Pizzagalli era adottata dal padre Giuseppe detto Pin. Una volta individuato il sito dove la Civetta viveva, venivano piantati dei paletti di legno dove, sulla cima degli stessi, venivano posizionate e legate con una piccola cordicella, delle tagliole imbottite con stracci. Quest’ultimi servivano per non arrecare danno agli arti del piccolo rapace. Quando la Civetta si posava faceva scattare la tagliola e rimaneva intrappolata. La Civetta recuperata veniva prima imbragata con laccetti di cuoio e poi ammaestrata alla “riverenza”, comportamento tenuto in natura dal rapace in determinate occasioni durante il periodo del corteggiamento. Lo scopo era quello che, a comando dell’uccellatore perché sollecitata, la Civetta continuasse a farlo in modo da spaventare i Tordi posizionati nelle gabbie.
UCCELLANDA GALIMBERTI
Sita nel comune di Seregno in località Sirone, è stata attiva dalla fine del 1950 al mese di luglio 1976 dopo che un’ordinanza regionale ne fece chiudere i battenti perché l’impianto rientrava nel territorio a rischio Diossina dopo l’esplosione del reattore della ditta ICMESA di Seveso. Si componeva di una bresciana con rete tramaglio lunga circa 75 mt per 2.80 mt di altezza e un capannino di legno. Era piantumata a Platano e Carpino (quest’ultima specie arborea fu importata dall’Osservatorio di Arosio e dall’uccellanda di Brambilla di Giussano). La preparazione della struttura avveniva dal mese di maggio sino agli ultimi giorni che anticipavano l’apertura della stagione delle catture. I conduttori erano i proprietari Francesco Galimberti classe 1937 e il cugino Dino Teresio Galimberti, classe 1939. L’attività di cattura si svolgeva solamente in tarda estate/autunno dalla prima decade del mese di agosto alla fine di dicembre. Gli uccelli catturati venivano venduti ai negozianti di uccelli. Le specie non richieste venivano sempre rilasciate. Non venivano utilizzati zimbelli e non si usava la Civetta per uccellare. Infatti la stessa, se catturata, veniva ceduta ai cacciatori di Allodole che la utilizzavano come zimbello da richiamo. Venivano catturati mediamente dai 10 ai 30 uccelli al giorno. Le specie catturate erano Civetta, Barbagianni, Gufo, Merlo, Tordo bottaccio, Tordo sassello, Cesena, Storno, Rigogolo, Torcicollo, Picchio rosso maggiore, Picchio verde, Fringuello, Peppola, Fanello, Cardellino, Verdone, Frosone, Verzellino, Lucherino, Ciuffolotto, Zigolo giallo, Zigolo muciatto, Zigolo nero, Usignolo, Tottavilla, Pispola, Prispolone, Ortolano, Cuculo, Passera scopaiola, Balia nera, Beccafico, Capinera, Pettirosso, Cinciallegra, Cinciarella, Cincia bigia, Cincia mora, Codibugnolo, Scricciolo, Passera d’Italia e Passera mattugia. Il proprietario Francesco Galimberti ricorda che il primo anno uccellò con reti prestate dall’amico Ferruccio Frigerio di Seregno. L’anno successivo le reti furono comprate nuove. Ogni anno il permesso veniva rilasciato dalla Regione dopo una riunione organizzativa con gli uccellatori Turati di Robbiano, Frigerio di Seregno, Brambilla di Giussano, Invernizzi coordinata dall’Avvocato G. Bana dell’Osservatorio Ornitologico di Arosio. La preparazione dei richiami era impegnativa, ma appassionante e il proprietario ricorda di un richiamo particolare, un Prispolone con piumaggio albino e con occhi rossi acquistato a Pordenone da un allevatore. A tal proposito, è bene ricordare con qualche dettaglio in più alcuni dati che riguardano le specie più interessanti catturate nella struttura:
CESENA: solitamente durante il passo se ne catturavano diversi esemplari ma si ricorda una presa massima di 26 esemplari avvenuta durante una giornata ventosa e assolata di cui però non è stata purtroppo segnata la data.
ORTOLANO: venivano catturati solitamente una ventina di soggetti all’anno ma si ricorda una presa massima di cinque individui di cui due maschi e tre femmine avvenuta una domenica mattina verso la fine del mese di agosto.
TOTTAVILLA: in dialetto Turlu veniva catturata con una media di 10-12 individui all’anno. Tale dato sottolinea come questo piccolo passeriforme una volta era molto più presente rispetto ai giorni nostri sul territorio brianzolo.
CIUFFOLOTTO: in tutta l’attività dell’uccellanda ne furono catturati solo due.
PICCHI in generale, Usignolo, Pettirosso: non erano comuni ed erano pochi gli individui catturati ogni anno.
BARBAGIANNI: nella storia dell’uccellanda ne è stato preso solo uno.
CESENA FOSCA: rara e interessante cattura avvenuta nell’inverno 1973/74, imbrancata con delle Cesene. L’esemplare fu poi scambiato con un valido Prispolone utilizzato come richiamo di proprietà di un appassionato abitante a San Fior di Treviso.
PISPOLA GOLAROSSA: unica cattura avvenuta in un settembre degli anni ’70 durante una buona giornata di catture di Prispoloni. Sistemata in una gabbietta e appastellata, pensando fosse una Pispola, il proprietario la tenne sino alla primavera successiva quando, scoperta la specie grazie alla comparsa del rosso sul petto, fu ceduta in cambio di un bravo Prispolone cantore di proprietà di un appassionato di San Fior di Treviso.
Walter Sassi
LA MONACHELLA DEL DESERTO
DALLE SABBIE AFRICANE E ASIATICHE ALLE PRATERIE DELL’EUROPA OCCIDENTALE
(13/01/2023)
Una delle soddisfazioni del birdwatching svolto in autunno è scoprire specie di uccelli rari in luoghi inaspettati, come avviene in questi ultimi anni con la Monachella del deserto (Oenanthe deserti), un turdide di 15 cm e dal peso di 26-30 gr. Pur essendo accidentale nel nostro continente e proveniente dalle calde aree desertiche del Nord Africa, del Medio Oriente e dell'Asia centrale, negli ultimi anni il numero di dati registrati di Monachella del deserto in Europa è piuttosto importante, con, ad esempio, 97 osservazioni in Gran Bretagna e più di 40 in Francia. Ma questa specie è stata trovata anche in Norvegia, in Finlandia, in Estonia nonché nella nostra penisola con più di 45 osservazioni registrate sino alla fine del 2022. Sul territorio europeo, la maggior parte delle osservazioni viene effettuata tra settembre e dicembre, principalmente tra ottobre e dicembre e gli uccelli sono spesso avvistati in aree sabbiose o sassose che ricordano (vagamente) il loro habitat originario. Come si spiega l'arrivo in Europa delle Monachelle del deserto? É sempre sorprendente che passeriformi tipici dei deserti del Nord Africa o dell'Asia Centrale possano arrivare sulle spiagge dell'Europa settentrionale e occidentale, ma a volte si scoprono altre specie originarie delle stesse regioni aride in Europa. Solitamente sono uccelli nati nell’anno, più propensi degli adulti a raggiungere aree molto lontane dal normale areale della specie. Questi arrivi in Europa potrebbero essere causati del fenomeno della dispersione giovanile o dal fenomeno delle migrazioni inverse (disfunzione della bussola interna) e dalle migrazioni speculari (simmetriche rispetto alla rotta normale). Va anche sottolineato che l’arrivo di tutte le specie considerate rare potrebbero essere causati dalla meteorologia che influenza il viaggio dei migratori durante il loro spostamento. La Monachella del deserto si sta espandendo nell'Africa nord-occidentale dopo diversi anni di siccità, il che, secondo osservazioni e studi sui suoi movimenti, potrebbe aumentare la probabilità di arrivi soprattutto nell'Europa meridionale. (Walter Sassi)
IL CANTO DEGLI UCCELLI
(11/01/2023)
Come la forma e la colorazione del piumaggio, anche il canto degli uccelli è ovviamente il risultato della selezione naturale. Perciò per ogni specie la durata, il timbro, il ritmo, il tono della voce si sono adattati alla condizione dell’ambiente. Tra gli uccelli, un vero e proprio canto esiste solo tra i passeriformi, noti infatti anche con la denominazione di uccelli canori. Sono uccelli generalmente di piccole dimensioni, che basano la loro sopravvivenza sulla capacità di passare inosservati. Poiché i predatori per cacciare usano vista e udito, ci sono due modi per passare inosservati: stare zitti o avere colori mimetici. Le femmine, sulle quali grava il peso maggiore della perpetuazione della specie e che durante la cova devono rimanere per giorni ferme nello stesso posto, hanno quasi sempre colori mimetici e non sono in grado di emettere un canto vero e proprio. I maschi di alcune specie, al contrario, sono dotati di canto molto complesso e sonoro ma hanno una colorazione del piumaggio molto mimetica, come l’Usignolo (Luscinia megarhynchos), il Tordo bottaccio (Turdus philomelos) e lo Scricciolo (Troglodytes troglodytes). In altre specie ancora, i maschi hanno una colorazione vivace ma un canto molto più sommesso e meno vario. In particolare, per le specie che vivono nel fitto della vegetazione, il canto serve anche per comunicare alle femmine la propria presenza e spesso quelle più mimetiche, che vivono in boschi e canneti, cantano anche la notte. Gli uccelli che si cibano in luoghi riparati emettono versi di richiamo o veri e propri canti anche quando sono alla ricerca del cibo, mentre quelli che si alimentano sul terreno in luoghi aperti, stanno silenziosi per non attirare i predatori. Anche la frequenza del canto è importante. Infatti le note a bassa frequenza si trasmettono a grande distanza, pure negli ambienti chiusi come i boschi e i canneti. É per questo motivo che, ad esempio, i Tarabusi (Botaurus stellaris) hanno una voce potente che risuona nella notte fino a grande distanza e che i rapaci notturni che vivono nei boschi hanno voci più profonde (a frequenza inferiore) delle specie che vivono in ambienti aperti. (Walter Sassi)
ADATTAMENTO AL RUMORE NEL PETTIROSSO
(15/12/2022)
Per adattarsi al rumore, il Pettirosso (Erithacus rubecula) deve "guadagnare altezza". L’inquinamento acustico presente nella vita quotidiana disturba gli uccelli e la loro comunicazione. Il famigliare Pettirosso è un passeriforme molto territoriale la cui canzone melodiosa e malinconica risuona nei nostri parchi e giardini anche nella brutta stagione. Infatti, in autunno e in inverno, i due sessi cantano e si richiamano difendendo un dominio esclusivo. In un articolo pubblicato sulla rivista Transportation Research, un biologo ha mostrato che nelle aree rumorose (ad esempio quelle vicine a una strada trafficata), i Pettirossi scelgono posatoi alti per poter cantare da una certa altezza con lo scopo di farsi sentire dai loro rivali. L’assenza di posatoi sufficientemente alti potrebbe quindi ostacolarli seriamente. Anche sulla rivista Animal Behaviour, gli ornitologi avevano osservato che quando il rumore ambientale diventa importante, il canto del Pettirosso diventa più semplice, più lungo ed emesso con una frequenza più alta. Inoltre, altri studi hanno poi dimostrato che questo passeriforme tende ad allontanarsi dalle zone rumorose e a cantare piuttosto nelle ore notturne. (Walter Sassi)
LO STORNO,
PARADOSSO DELLA CACCIA ITALIANA
(04/11/2022)
Lo Storno Sturnus vulgaris è conosciutissimo rappresentante dell’Ordine Passeriformi, Famiglia Sturnidi. Volatile di dimensioni medio-piccole, caratterizzato da becco lungo e affilato e timoniere corte, dalla livrea scura con riflessi metallici, lo Storno colonizza un vasto ventaglio di habitat europei, dalle aperte campagne ai centri urbani, nei quali anzi si riunisce volentieri in colonie numerosissime soprattutto in periodo autunno-invernale. Rifugge soltanto gli ambienti alto montani, dai quali al limite transitano i contingenti di passo autunnale, ma senza fermarsi. È invece uno spettacolo consueto per gli abitanti di molte nostre città, osservare stormi a volte giganteschi, composti da migliaia di soggetti, che compiono evoluzioni sincrone nei cieli accesi dalle luci del tramonto, così preparandosi a calare sui dormitori notturni (piazze e viali alberati, piazzali di stazioni ferroviarie, parchi e giardini). Si è perso il conto di quante volte il piazzale della Stazione Termini a Roma, salì alla ribalta delle cronache per l’abbondantissimo numero di storni che, pernottando sui lecci colà presenti, rendevano l’asfalto una trappola scivolosa e pericolosa per il tanto guano sparso: problema risolto dal Comune sostituendo la maggioranza degli alberi con altri più piccoli, che al momento non attirano più gli uccelli per le ridotte dimensioni. Nelle città, gli storni amano anche affollarsi e alimentarsi sulle alberature urbane più tipiche, quelle a bagolaro Celtis australis, le cui bacche di colore nerastro e dal sapore acidulo sono ampiamente ricercate da molte specie di avifauna. Tuttavia, lo Storno è presente nel nostro paese anche durante il periodo riproduttivo, dunque come nidificante, costruendo i nidi e allevando la prole – da quattro a otto uova per covata e generalmente due covate l’anno – molto spesso negli anfratti dei muri, nei monumenti antichi o sotto le tegole dei tetti. Si può affermare, similmente a quanto avviene per molte altre specie di uccelli più o meno comuni, che lo Storno è presente con popolazioni miste, da quelle sedentarie a quelle migratrici, passando attraverso quelle parzialmente migratrici ossia che compiono movimenti migratori di raggio limitato, quasi sempre sollecitate dalle avverse condizioni climatiche e relativa scarsità di risorse trofiche. La letteratura scientifica attesta che le popolazioni nidificanti nel Sud dell’Europa, ivi compresa l’Italia, sono in aumento, mentre la tendenza opposta riguarderebbe i contingenti nidificanti nel centro-nord europeo, dando alla fine un bilancio complessivo non particolarmente favorevole alla specie, nonostante questo appaia contraddittorio per un osservatore medio, che si soffermi solo sulla situazione demografica della specie qui da noi. Lo spiccato istinto gregario dello Storno è pure quella caratteristica che lo rende potenzialmente una calamità per l’agricoltura, in particolare per i frutteti, i vigneti e gli oliveti, ossia le colture specializzate di maggior pregio commerciale. Questa specie infatti predilige l’uva, le olive e la frutta di stagione, mentre in primavera-estate, dato il suo regime onnivoro, si dedica maggiormente agli insetti, ai lombrichi e altri piccoli invertebrati, che cattura nei prati stabili e nei terreni erbacei incolti, meglio se dopo uno sfalcio recente, necessaria fonte di proteine per lo svezzamento delle covate. Altri alimenti appetiti dallo Storno sono le bacche e i frutti spontanei, come il bagolaro, l’edera, la fitolacca americana, l’uva canadese tanto per citarne alcuni, ma pastura pure nelle stoppie trinciate di mais, sui prati e pascoli e sui terreni recentemente arati. Uno spettro alimentare così vasto e la sua elevata plasticità ambientale, sono senz’altro punti di forza di questo volatile, che ne favoriscono la diffusione e hanno portato a classificarlo tra le specie oggi definite “opportuniste” o “invasive” per le quali possono essere approntati piani di controllo numerico anche al di fuori della stagione venatoria. Il discorso della caccia, con lo Storno è invece complesso. Cacciabile in Italia fino al 1997, quando venne escluso dall’elenco di cui all’art. 18 della legge 157/92 con DPCM (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri) insieme ad alcune altre specie, lo Storno da allora è stato per lunghi anni al centro dell’altalenante vicenda del prelievo in deroga di cui alla Direttiva 2009/147/CE “Uccelli”, sul quale ora non ci soffermiamo data l’aggrovigliata situazione normativa e la complessa giurisprudenza che si è consolidata, sia in sede di giustizia amministrativa, che di Corte costituzionale e della stessa Corte di Giustizia europea. Resta purtroppo sentito e presente il problema dei danni alle produzioni agricole, la cui riduzione sarebbe certo facilitata dal poter cacciare normalmente lo Storno, senza dover ricorrere a provvedimenti diversi, sempre esposti a ricorsi e che, con le loro mille prescrizioni, non invogliano i cacciatori a rendersi attivi nel controllo della specie. Lo Storno, fin quando fu cacciabile, diede luogo a forme venatorie tradizionali, specifiche e anche molto elaborate: ad esempio, recitò e reciterebbe tutt’oggi il ruolo di protagonista nella pratica della caccia cosiddetta “al prato”. Essendo una specie amante dei luoghi aperti, abituata a vivere in grandi gruppi, sempre vigile rispetto a quanto accade nei dintorni grazie anche alle “sentinelle” che si sistemano su posatoi elevati, si capisce come la caccia più redditizia sia quella da capanno, fisso o temporaneo, avvalendosi di richiami vivi (quando erano consentiti). Molto utili ulteriori ausili – sempre, ovviamente, quando si potevano utilizzare – come le giostre recanti appesi alle estremità degli storni impagliati ad ali aperte o stampi in plastica nella medesima postura, oltre che i medesimi stampi disposti opportunamente a terra in quantità generosa. Il capanno deve essere naturalmente dissimulato con perizia, proprio perché, trovandosi in terreno libero da vegetazione, risulterebbe molto disturbante se si ergesse all’improvviso allo scoperto: l’ideale sarebbe accostarlo a siepi o cespugli, oppure dissimularlo all’interno di fossi o avvallamenti del terreno. Un altro accorgimento suggerito dall’esperienza, che aiuta a convincere gli storni a calare sul gioco allestito con cura, è quello di posizionare opportunamente accanto agli stampi della specie anche altri stampi di uccelli legati alle zone aperte, quali la Cornacchia grigia e la Pavoncella, che abitualmente si alimentano negli stessi siti insieme allo Storno e viceversa. Negli appostamenti fissi ai Turdidi, grande efficacia assume il posizionamento artificiale di “secchi” sulle principali piante di buttata, che lo Storno sceglie per posarsi una volta attirato dai richiami. Questi ultimi rivestivano (e rivestirebbero) un ruolo importante, anzi vitale: tanto che non vi era capanno agli storni che non si avvalesse delle cosiddette “corridore”, tubi di rete lunghi e stretti posizionati al suolo, dentro i quali numerosi esemplari da richiamo erano lasciati liberi di muoversi correndo e svolazzando avanti e indietro, con grande effetto attirante sui selvatici. Altrettanto efficaci i gabbioni, di dimensioni generose, contenenti anch’essi molti esemplari da richiamo, liberi di muoversi e, soprattutto, di farsi sentire con forte e attirante cicaleccio. La caccia vagante, per contro, non darebbe che scarsissime possibilità di successo al cacciatore, a meno che le condizioni di visibilità siano tali – come avviene con la nebbia – da permettere un avvicinamento sino ad arrivare a tiro degli uccelli posati al suolo o sugli alberi. Semmai, individuate le pasture frequentate da questi diffidenti uccelli, per riuscire a ottenere qualche risultato è possibile allestire un capanno temporaneo o anche soltanto nascondersi tra la vegetazione naturale, in attesa che si presenti l’occasione di sparare e in queste condizioni, insieme allo Storno, si potranno incarnierare pure Merli o Tordi. In definitiva, trattare dello Storno come specie d’interesse venatorio non è semplice, visto il continuo intersecarsi dei piani di ragionamento tra ciò che appartiene al passato e ciò che appartiene all’oggi, tra quanto si faceva e quanto in futuro non dispiacerebbe di fare nuovamente. Anche nel caso in cui la specie sia concessa in deroga, i limiti di carniere devono essere rigorosamente rispettati in virtù della particolarità di tale regime di prelievo, benché questo apparentemente strida con la necessità di porre un freno alle popolazioni, il che esigerebbe di poterne abbattere numeri illimitati. Vedremo se, grazie al ritorno di un minimo di ragionevolezza, questo paradosso della caccia italiana potrà essere, prima o dopo, finalmente sanato. (Palumbus)
UN MUSEO ORNITOLOGICO AD APICE
(01/04/22)
Un nostro attento e fedele lettore, l’ornitologo Antonio Porcelli di Apice (BN), ci ha segnalato questa importante struttura nata con lo scopo di stimolare e divulgare l’interesse e lo studio dell’avifauna nonché di diffondere notizie sulle specie presenti sul territorio comunale e sugli uccelli migratori. Il Museo Ornitologico di Apice vuole anche rappresentare un centro di aggregazione per la cultura naturalistica e fornire strumenti di conoscenza e divulgazione in altri settori delle discipline naturali. Accoglie, infatti, oltre 2.000 volumi scientifici sull’ornitologia, 50 esemplari di uccelli impagliati (una collezione nata proprio dall’amore per l’avifauna di Antonio Porcelli), 300 nidi dell’avifauna italiana, 800 poster e 50 videocassette sull’avifauna mondiale, 150 gusci di uova e 20 coppie di canarini di razza pura.
L’ingresso è libero e il Museo è aperto tutti i giorni, anche la domenica, alle scolaresche e al pubblico in genere, e si trova presso l’ex Edificio Scolastico del centro storico di Apice, in Piazza Municipio 1.
Per info: dott. Antonio Porcelli, tel. 331/9607539 – email: antonio.porcelli1968@gmail.com.